Microinnesto erbaceo: l’evoluzione a portata di… vitro!

Innesto e micropropagazione: ecco come tradizione e modernità si uniscono per fornire al mercato del vivaismo materiale sempre più idoneo

“Facciamo un’anticipazione: quando si parla di micropropagazione, ovvero di produzione di piantine in vitro, fino a qualche anno fa si faceva riferimento solo alla produzione di portainnesti e di varietà auto radicate”.
Così Oriano Navacchi, ricercatore presso  Vitroplant Italia Srl, inizia a fare chiarezza sulla produzione vivaistica utilizzando la tecnica della micropropagazione.

Difatti per fruttiferi, come nocciolo, pesco e kiwi, in vitro si può produrre il portainnesto che poi viene coltivato in serra e innestato in maniera tradizionale utilizzando gemme provenienti da piante madri esterne; oppure si può produrre in vitro direttamente la varietà interessata, ambientarla in serra e coltivata autoradicata.

Ma da un po’ di anni a questa parte si comincia a parlare sempre di più di innesto erbaceoutilizzando piantine micropropagate in vitro, ovvero di microinnesto erbaceo.

AgroNotizie in collaborazione con la Società di Ortoflorofrutticoltura Italiana entra nei dettagli di questa tecnica vivaistica “in piccolo”.

Una pratica secolare: l’innesto

È doveroso prima fare un breve ripasso su che cosa si intende per innesto. L’innesto è una pratica che permette di unire due piante, dette bionti, per ottenere un nuovo individuosenza l’utilizzo di semente.
Alla parte inferiore provvista di radici, chiamato portainnesto, viene aggiunta la marza che è una porzione di ramo provvista di gemme che costituisce la parte aerea.

Con questa tecnica si uniscono in maniera fisiologica ed anatomica due individui diversi con caratteristiche agronomicamente utili.

Per esempio, il portainnesto possiede la resistenza ad un patogeno tellurico e la marza può avere un’elevata produttività. Sulla nuova pianta così ottenuta dall’unione si avranno entrambe queste caratteristiche positive.

In generale la tecnica dell’innesto comporta molteplici vantaggi quali controllare la vigoria, la longevità e la precocità di sviluppo, recuperare una vecchia cultivar o introdurne una nuova, adattare una cultivar a specifiche condizioni pedoclimatiche, migliorare la resistenza o la tolleranza verso i patogeni e malattie, risanare il materiale da virosi, clonare cultivar difficili da propagare.

Esistono diverse tipologie di innesto su piante arboree ma può essere fatto anche su orticole: in questo caso si parla di innesto erbaceo.

L’innesto erbaceo

Viene usato materiale vegetale ancora verde e tenero, di qualche millimetro di diametro, non ancora lignificato sia per la marza che per il portainnesto.
Tra i diversi vantaggi contrasta i principali patogeni tellurici in orticole come pomodoro, melanzana, peperone e cucurbitacee.

L’innesto erbaceo, perciò, non è una novità per i vivaisti, ma allora perché sta diventando sempre più interessante il suo utilizzo con le piantine micropropagate?

Microinnesto erbaceo: piccoli tessuti, tante possibilità

Il microinnesto erbaceo è una tipologia di innesto erbaceo che prevede di unire due bionti entrambi prodotti da colture in vitro, ovvero micropropagati.

In poche parole, sia la marza (apici vegetativi o gemme) che il portainnesto con le radici vengono prodotti in laboratorio, quindi in ambiente protetto, e innestati in una fase molto precoce quando hanno un diametro di 3-5 millimetri.

“Utilizzare il microinnesto erbaceo – spiega Giuliano Dradi, direttore dell’azienda Battistini Vivaipermette di innestare materiali che normalmente sarebbero difficile da unire, come per esempio il caso di due varietà di kiwi: Actinidia chinensis usata come marza e Actinidia arguta come portainnesto. Esse presentano diametri differenti che complicano la buona riuscita di attecchimento se usassimo un innesto tradizionale.
Invece con il microinnesto erbaceo si riesce a superare questa problematica, perché i tessuti sono ancora verdi e teneri con più o meno lo stesso diametro e si riesce ad unirli meglio”.

Inoltre, si possono superare tutta una serie di problematiche legate alla radicazione in vitro in alcune piante come, per esempio, il caso del castagno (Castanea sativa).
Il castagno non è specie facile da fare in laboratorio, soprattutto i giovani germogli sono poco propensi alla radicazione in coltura sterile.
Per superare questo problema il portainnesto viene coltivato in serra, mentre la gemma viene prodotta in vitro senza il bisogno di farla radicare. Si evita così che i giovani germogli vengano perduti per necrotizzazione apicale, ovvero morte dei tessuti, fenomeno a cui il castagno è molto soggetto.

Il microinnesto viene anche utilizzato per la pratica dell’indexaggio, ovvero l’utilizzo di piante indicatrici su cui viene innestato del materiale vegetale da controllare, per individuare o meno la presenza di malattie patogene.

Ma nel concreto come avviene il microinnesto?

Una tecnica, tante vie di applicazione

Il produttore o il vivaista può applicare il microinnesto con diverse metodologie.

Produzione e innesto in vitro, in cui su coltura sterile si produce sia il portainnesto che la marza e sempre su coltura sterile si innestano. Una volta avvenuto l’attecchimento dei due bionti la piantina innestata verrà fatta radicare e spostata in serra per l’acclimatamento fino alla coltivazione in pieno campo: questo passaggio viene chiamato ex-vitro, quindi in condizioni non più sterili.
In questo caso le piantine vengono prodotte in completa sterilità e si ha l’elevata sicurezza fitosanitaria ma l’esecuzione dell’innesto e la gestione delle giovani piante può essere complicata.

Produzione in vitro e innesto ex vitro, in cui sia il portainnesto che la marza vengono prodotti su coltura sterile. Entrambi poi separatamente vengono fatti radicare e acclimatare in serra e poi innestati sempre in ex vitro. Anche qui si ha la sicurezza fitosanitaria delle piante innestate perché il materiale di partenza è prodotto in completa sterilità mentre la gestione manuale è più agevole.
Questa metodologia viene usata per kiwi, vite ed ulivo.

Produzione in vitro e innesto in pieno campo, in cui si fanno gli stessi passaggi della metodologia citata sopra ma l’innesto avviene in pieno campo. In questo caso si ha comunque la sicurezza fitosanitaria del materiale di partenza perché proviene da coltura sterile.

Una sicurezza fitosanitaria in più

“Con i sistemi tradizionali – continua a spiegare Navacchi – si produce in vitro solamente il portainnesto mentre la marza da innestare proviene da campi di piante madri coltivate all’aperto. Oggi l’utilizzo di questo materiale proveniente da piante madri esterne sta diventando un problema per quanto riguarda la sicurezza fitosanitaria.

Infatti, le piante madri sono suscettibili agli attacchi di patogeni perché coltivate all’esterno. L’utilizzo di reti protettive può essere un valido aiuto ma allo stesso tempo, per alcune colture, l’ombreggiamento e l’elevata umidità che si creano sotto il telo possono rendere il materiale di propagazione meno performante.

“Per produrre marze da materiale micropropagato il numero di piante madri necessario sarà molto limitato, permettendo cosi di poterle conservare e controllare in condizioni di massima sicurezza sanitaria come screen house con doppia copertura. La micropropagazione consente di ottenere da poche piante madri numeri molto elevati di piante finali”  specifica Navacchi.

Quindi la possibilità di poter produrre in vitro la marza consentirebbe di non avere più la necessità di prelevare dalle piante madri tradizionali – onerose anche da punto di vista della coltivazione – e vendere all’agricoltore del materiale certificato completamente esente da fitopatie.

Un brevetto sull’innesto erbaceo: nubi all’orizzonte?

Nonostante il microinnesto erbaceo con materiale da micropropagazione sia una pratica conosciuta e utilizzata da parecchi anni in frutticoltura, qualcosa sta cambiando.
Infatti, come riporta la Rivista di Frutticoltura e di ortifloricoltura dal 2018 è stato brevettato e depositato per il kiwi, da parte dell’Azienda Agricolt Brandoni, un protocollo di innesto ex vitro di entrambi i bionti.

Maurizio Lambardi, segretario generale della Società di Ortoflorofrutticoltura Italiana, riporta: “In quanto l’innesto erbaceo è già stato brevettato, è già in corso un contenzioso in tribunale con un vivaista che lo ha praticato”.

Un brevetto generale sull’innesto erbaceo creerebbe parecchie limitazioni ai vivaisti che già utilizzano questa tecnica e la problematica maggiore, sarebbe il rallentamento dellapropagazione vivaistica per una serie di specie frutticole, oltreché ad una spesa in più per le aziende, già gravate da elevati costi di produzione.

Navacchi conclude: “Esistono precedenti documentabili sul fatto che l’innesto erbaceo viene usato da tempo da molti laboratori. È possibile applicare un brevetto solamente ad una tecnologia ben specifica ed innovativa, come una nuova clips da innesto o un cicatrizzante con una specifica composizione chimica, ma non al sistema di innesto in verde in generale” .

Attendiamo perciò nuovi sviluppi.

© AgroNotizie – riproduzione riservata
Fonte: AgroNotizie
Autore: Chiara Gallo

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